Ormai è quasi di moda, del Cammino di Santiago di Compostela (Spagna) si legge e si parla in molti contesti, dai magazine di attualità ai forum degli appassionati dei viaggi a piedi, oltre naturalmente alle pubblicazioni spirituali e religiose. Il Cammino è certamente un’esperienza di viaggio in cui le distanze si misurano e si modellano sulle possibilità di raggiungerle a piedi, in un ascolto costante con il proprio corpo che indica i tempi, le necessità, i limiti. E’ un carosello di colori della natura, di cieli tersi solcati da nuvole sdraiate sopra campi di girasoli. E poi l’oro del grano e gli alberi tesi a toccare sfumature di azzurro. Di tratto in tratto si incontrano cespugli di ginestra profumata, eucalipti e tappeti di erica che fiancheggiano la strada, fino ad addentrarsi nei boschi in cui querce e castagni hanno forme più familiari al nostro sguardo. Per una logopedista, questa è stata un’occasione di riflessione sulle meravigliose possibilità del linguaggio e della comunicazione.
Si incontrano pellegrini di ogni parte del mondo, ma nonostante le differenze linguistiche la conversazione decolla rapidamente, percorrendo anch’essa i sentieri di tutte le lingue più conosciute, dallo spagnolo della terra che ti ospita, all’inglese, francese o tedesco. L’unico requisito è che il codice sia condiviso da tutti i presenti alla conversazione, per garantire che venga raggiunto l’obiettivo principale: trasmettere il proprio messaggio, raccontarsi, comunicare. Gli errori sintattici, di plurale o di genere, i vocaboli presi a prestito da altre lingue o persino inventati, trovano giustificazione e sono accettati in nome dello scambio comunicativo.
Dal punto di vista della comunicazione, questo scambio svolge ciò che il linguista russo Roman Jakobson, nelle sue teorie sul linguaggio (Saggi di linguistica generale, 1966), definisce la “funzione referenziale”. Essa riguarda il referente, cioè il contesto, la situazione esterna, l’interlocutore o qualunque esperienza concreta (“sta piovendo) o astratta (“l’amicizia è un sentimento importante”). E’ abbastanza immediato comprendere come la maggior parte degli scambi comunicativi abbia prevalentemente questa funzione, ossia trasmettere un messaggio a scopo di informazione, richiesta o dichiarazione.
Spesso però le conversazioni svolgono anche la “funzione conativa o persuasiva” legata all’interazione con l’interlocutore dal quale desideriamo qualcosa: “ascoltami per favore”, “vorrei che mi accompagnassi”, “mi passi l’acqua?”.
Un secondo spunto di riflessione me l’ha fornito quella piacevole abitudine che i frequentatori della montagna conoscono bene: salutare chiunque si incontri sul sentiero. Sul Cammino di Santiago l’augurio “Buen camino” è lo scambio verbale ripetuto e ricevuto mille volte al giorno, al quale si aggiungono i “Buenos dias!” e “Hola!” delle persone che incontri nei paesini, sulle strade e persino di chi affacciandosi alla finestra ti porge il saluto e un sorriso.
In questo caso si tratta della cosiddetta “funzione fàtica” necessaria per stabilire, mantenere o riattivare un contatto comunicativo o sociale, attraverso messaggi che non posseggono un proprio significato letterale, ma servono fondamentalmente per riconoscere la presenza dell’altro. Basta pensare a locuzioni come “Pronto” o ai cenni con cui si annuisce al telefono per sopperire alla mancanza dei riferimenti visivi dello sguardo e della comunicazione non verbale. La stessa funzione viene svolta da formule rituali o dai convenevoli che utilizziamo quotidianamente nell’incontrare qualcuno, in cui domandiamo senza attendere alcuna risposta: “Buongiorno, come va?”, “Tutto bene?” o nel corso di una conversazione per evidenziare che si è in ascolto: “Capito”, “Già”.
Beh, a questo punto forse vi è venuta la curiosità di conoscere anche le altre funzioni del linguaggio, non meno importanti e determinanti nella vita sociale degli umani. Ve le presento:
La funzione emotiva riguarda lo stato d’animo del parlante, il quale comunica una propria emozione (“sono stanchissimo”) oppure l’atteggiamento rispetto all’oggetto della conversazione (“credo che sia un errore”). Le forme grammaticali che esprimono questa funzione spesso sono esclamazioni o interiezioni, in cui l’enfasi serve per evidenziare proprio questo contenuto emotivo.
La funzione poetica convoglia l’attenzione sul messaggio in sé, per la forma in cui viene espresso, certamente nella poesia e ogni qualvolta si ricerchi un determinato stile che risulti esteticamente efficace, come accade nelle filastrocche, nelle canzoni o nei messaggi pubblicitari.
In ultimo, la funzione metalinguistica è quella che contraddistingue il messaggio quando l’argomento è il linguaggio stesso o le sue strutture, regole, funzioni o caratteristiche (si parla di metalinguaggio). Al di fuori delle lezioni di analisi logica o grammatica, riconosciamo questa funzione in frasi come “ciò che intendo dire” o certi errori di ipercorrettismo commessi dai bambini nell’uso di forme verbali irregolari (“voi dicete”, “ho aprito”).
Voglio condividere un’ultima riflessione, nata sulle strade verso Santiago da queste conversazioni multilingue piene di errori e di voglia di comunicare. Non conoscevo lo spagnolo e non l’ho mai studiato, ma ho riconosciuto in me lo stesso percorso di apprendimento che spontaneamente si verifica nel bambino da 0 a 3 anni. Immersa nella nuova lingua, ho raccolto inizialmente un piccolo vocabolario per la sopravvivenza, fatto di parole che riguardano la disponibilità di un letto in ostello o degli ingredienti del menù. Con il passare dei giorni facevo tesoro di nuovi vocaboli, avverbi e forme frasali che potevo usare negli incontri strada facendo. Tornavano alla memoria parole di canzoni, film e cartoni animati, fino a disporre di un piccolo patrimonio con cui sono riuscita ad imbastire conversazioni anche articolate, che riguardavano persino il confronto su temi scolastici, sociali, di viaggio, politica e vita vissuta. Anche da questo punto di vista è stata una scoperta.
Un viaggio molto ricco, posso davvero dire gracias a la vida